
Una breve testimonianza di Jalil Sahar rifugiato dall’Afghanistan uno dei fondatori dell’associazione Soci-Culturale Awa, una associazione che appena si costituita con volontà dei rifugiati provenienti dall’Afghanistan.
La data è il 25 agosto, erano arrivati all’aeroporto di Kabul il giorno prima con terribili problemi. Nessuno sapeva che erano li, ma con la folla che c’era all’aeroporto, non erano sicuri di poter salire sull’aereo.
Era sera, i loro nomi vengono chiamati ad alta voce. Vanno a consegnare i passaporti e si mettono in fila. Vedono che questa linea finirà per collegarsi agli aerei da trasporto militare della NATO. Attraversano il muro, fatto di filo spinato, fiduciosi che saranno liberati dalle grinfie dei talebani.
Quando si avvicinano all’aereo da trasporto, lui non riesce a trattenere le lacrime. Sa che questo aereo li renderà apolidi, la sua vita, la sua città e tutto il resto si trasformano in ricordi.
Non sa se rivedrà la sua terra natale e la sua famiglia. È una sensazione terrificante, consegnare la sua patria ai terroristi e ai loro padroni, prima che l’aereo decolli, chiama sua madre: cara mamma, siamo all’aeroporto di Kabul, forse andremo in un altro paese, abbi cura di te.
La madre chiede ad alta voce: Cosa?
Un momento di silenzio e di pianto profondo.
Ti chiede dove stai andando, Kameleh è con te? si, cara mamma, potremmo andare in Italia, ma non è ancora chiaro.
L’aereo atterra dopo due ore e mezza, dai messaggi ricevuti sulla scheda SIM capiscono di trovarsi in Qatar. Dopo una sosta di due ore, l’aereo riparte., l’aereo atterrerà di nuovo dopo circa sei ore. Si rendono conto di essere a Roma.
Era come se una vita fosse finita, come è finita? La sua mente, ripercorre i suoi circa i suoi trent’anni di vita, muore di dolore, ma non ha scelta.
Nuova vita e una nuova società, un’altra lingua, un’altra cultura e una patria abbandonata, e la difficoltà con cui deve convivere, in cui come se aprissi gli occhi e li chiudessi, i servizi governativi finiscono ed ora devi lavorare sodo per trovare andare avanti e sostenere il costo della di vita costruire da zero. Non è facile ricostruire una vita, soprattutto in una città o in un paese in cui non conosci più le dita della tua mano. Le difficoltà dell’immigrazione non fanno impazzire o uccidere una persona, ma sicuramente la rendono più forte.
Sì, questa non è solo la storia di Jalil, perché l’Afghanistan ha milioni di rifugiati in tutto il mondo per cui le storie di tutti loro sono dolorose soprattutto, per coloro che arrivano in Europa attraversano i confini con i fili spinati e le boschi.
Nonostante tutte le difficoltà personali che affrontiamo, siamo ancora qui e cerchiamo di rendere il mondo un posto migliore, in cui un rifugiato soffra meno in modo che possa trovare la sua strada nella società e che l’Italia diventi la sua casa. Per cui il nostro impegno continua non solo in Italia ma anche speriamo di poter fare qualcosa per coloro che sono rimasti in Afghanistan, soprattutto le donne e le ragazze che sono esclusi dei loro diritti primari.